Litza Cittanova Valenzi, nacque a Tunisi nel 1917, in una famiglia borghese di origine italiana.
Figlia di Jacque e Ines Fiorentino, ebrei italiani già da tempo insediati in Tunisia, ma naturalizzati francesi.
Studiò a Parigi, dove si laureò in italiano ed insegnò per un breve periodo in un liceo da cui venne poi espulsa a causa delle leggi razziali.
Decise giovanissima, con la disapprovazione del padre, di aderire, assieme ai fratelli e a Maurizio Valenzi, al Partito comunista tunisino.
Rinunciò, così, alla comodità della vita borghese in un paese coloniale per aderire ad una vita di lotta e clandestinità.
Sposò Maurizio Valenzi nel dicembre del 1939 che raggiunse a Napoli dopo la liberazione da parte degli Alleati dell’Africa del Nord.
L’impegno civile e politico
Dopo aver vissuto nel 1942 l’esperienza del carcere, nel Forte di Sidi Kassem, arrivò a Napoli negli anni durissimi della lotta antifascista.
Si trovò ben presto a fare i conti con la disciplina comunista in quegli anni e la durezza interna al Partito, dominato da una rigidità che Litza aveva adottato in maniera estremistica.
Per attaccamento al Partito, lei, abituata agli agi della vita borghese, durante il periodo della clandestinità, si trovò a vivere in condizioni di sovraffollamento e scarsa igiene, che le provocarono la scabbia.
Dimostrò la sua devozione al Partito anche quando, durante la prigionia, incontrò il padre, accettando di non scambiare alcuna parola con lui, considerato in quel periodo nemico dell’URSS.
Lavorò alcuni anni come funzionaria di partito, impegnata nell’Unione Donne Italiane e dedicò grandi energie nel Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli.
A Napoli rimase fino alla fine, dopo aver vissuto gli anni della lotta antifascista e sempre al fianco di Maurizio Valenzi, che divenne successivamente, senatore, prima, e Sindaco di Napoli, poi.
La biografia di Litza ci restituisce la figura di una donna, ma anche di tutta una generazione di compagne che nella loro vita concreta, spesso con i figli neonati al seguito, lottavano al fianco degli uomini. Erano le donne, infatti, a gestire le comunicazioni con i compagni, assicurare provviste ed accogliere i perseguitati, oltre alle attività quotidiane di cura dei figli e di gestione della casa.
Il suo lavoro nel partito a Napoli nel dopoguerra si svolse soprattutto nel “Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli”, creato nel 1946 per ospitare, nutrire, curare presso le famiglie emiliane, meno provate dalla guerra, i bambini napoletani.
Fondazione Valenzi, è un’istituzione di rilievo internazionale, non schierata politicamente, attiva nella cultura e nel sociale, fondata dai figli Lucia e Marco e dedicata a Maurizio e Litza Valenzi.
“Qualcosa su mia madre”, di Lucia Valenzi, libro corredato di galleria fotografica e dei ritratti che suo marito ha dipinto per lei, con prefazione di Clio Napoletano
I ritratti di Maurizio Valenzi, pittore, conservati nella collezione di famiglia
Monumento funebre alla memoria di Maurizio e Litza Valenzi, presso il Cimitero di Poggioreale, Quadrato degli Uomini Illustri
Quando s’ era rifiutata di indossare il cappello per omaggiare la visita della Regina Elisabetta: «Il protocollo? Non lo uso. E poi non mi sta bene»
“Avevamo accolto Litza con cordiale sufficienza, perché ci era parsa troppo fragile per la realtà napoletana del dopoguerra, ne scoprivamo ora la combattività e la scuola del Partito Comunista Francese”
Gaetano Macchiaroli
“Litza nella sua apparente vaghezza era una persona di grande qualità e finezza intellettuale”
Clio Napolitano
Litza ricevette l’8 marzo del 1947 un telegramma da Imperia con l’offerta di mimose “franco di porto”. Le difficoltà nella piena comprensione della lingua, la porta ad immaginare che l’offerta fosse riferita, non solo al trasporto, ma al contenuto stesso di mimose e rispose al telegramma chiedendo di inviare “tutto il quantitativo possibile”.
Arrivarono a Napoli due vagoni di mimose che non furono mai pagate e la sua mortificazione fu enfatizzata da una burla che lo stesso marito inventò in quei giorni: le fece arrivare un finto telegramma che annunciava l’arrivo di altri carichi di mimose e solo dopo averla vista in lacrime le confessò lo scherzo. E ancora dopo tanti anni veniva ricordata come la “regina delle mimose”.